Eurovision, le stelle irradiate verso il logo della RAI, il Te Deum di Charpentier e poi iniziava lui. Quella sigla percorreva i valori e gli ideali di un’idea di umanità che non si sarebbe realizzata, mentre lui li praticava semplicemente raccontando. Bruno Pizzul era il verbo morale di un’idea di calcio, di sport e di vita. Nessuna forma di aggressione, nessuna oscillazione emotiva fine a se stessa, nessun gesto della voce in preda a deliranti isterismi. Come uno chansonnier ai margini della strada, lui raccontava il calcio ai margini dell’avvenimento. E, senza saperlo, ne ha fatto parte in una soluzione scenica che non si ripeterà più.
Bruno Pizzul possedeva le modulazioni di un timbro che musicava il frangente. È stato il Morricone del fútbol, la colonna sonora di un’epoca che è durata di certo meno della sua esistenza lunga quasi un secolo. Nato a ridosso dello scoppio della seconda guerra mondiale e finito nel momento storico in cui serpeggia il desiderio di scatenarne un’altra, Pizzul ha fatto parte degli schemi e dei movimenti dei calciatori sul terreno di gioco. La pulsazione delle loro prodezze oggi porta il suo nome. A fatica, ma felice. Le sue telecronache avevano la coscienza a posto. Non una parola fuori luogo, non un’espressione che ne potessero in qualche maniera turbare la visione e l’ascolto.
Nella triste serata dell’Heysel l’erranza stanca e dispersa degli spettatori si mischiava a quella della polizia belga e di uno scenario che in poche ore aveva mandato in onda il più desolante degli spettacoli. E il sottofondo lucido e arreso fu quello di Pizzul, alle prese con quello che sarà stato uno tra i momenti più difficili della sua carriera, di quando un uomo forse si accorge di avere a che fare anche con se stesso.
Quella voce che in un istante smise di essere suadente e rassicurante divenne il requiem saldo e cosciente destinato a condurre fuori da quel contesto chiunque afflitto nelle più profondo sensibilità. E quello che era stato chiamato a svolgere il suo lavoro di cronista dovette affrontare la severità dei peggiori colpi di scena per restituire alla dignità delle cose il corpo di una serata da dimenticare e da ricordare al tempo stesso. Solo, nella delicatissima diplomazia tra le verità che verranno e le lacrime di un’emotività non ancora istruita a farsene una ragione.
Spesso era solo nella sua cabina o con la testa nelle cuffie durante le telecronache. Per un mestiere strano, in cui quasi sempre si parla a milioni di persone senza guardarne nemmeno una in faccia. Un teatro grande come il mondo in cui l’unica platea visibile guarda da un’altra parte. Adesso quella voce deve godere di tutto il merito di eleggersi a musica, per un missaggio collettivo che mai potrà dimenticarla. E tutti quei ricordi, quelle immagini e quelle azioni oggi hanno la loro colonna sonora. Linea allo studio.